lunedì 11 aprile 2011

Metodologia territoriale -2

Si tratta in concreto di un tipo di studio esclusivamente di superficie che tende a superare la vecchia concezione delle ricerche di topografia, eseguite a tavolino e caratterizzate da interpretazioni estremamente generiche ( ad esempio che le “villae” romane in Appennino si trovano su paleo frana o frana stabilizzata ) per sostituirle con una concreta ricerca degli insediamenti non conosciuti e la conseguente comprensione dei modelli insediativi, ovvero di quali tipi di luoghi hanno attirato l’interesse delle comunità umane per abitare, viaggiare, seppellire i defunti, per attività economico – produttive e quant’altro.


Tutto questo allo scopo di capire, nei casi più fortunati e anche grazie allo studio dei materiali archeologici recuperati, la funzione nel territorio dei modelli medesimi ( funzione abitativa, economico – produttiva, cultuale, viaria e quant’altro ). Ne deriva che lo scopo ultimo dell’approccio archeologico territoriale è la ricostruzione della trama, o dinamica, insediativa dei vari periodi.
Si osservi che le ricerche di superficie in area montana devono affrontare un secondo ordine di problematiche, non connesse alla comprensione teorica dell’insediamento antico, ma al più “banale” rinvenimento dei reperti. In Appennino infatti, poiché sovente un sito si trova in posizione elevata o d’altura, gli strati archeologici hanno subìto in molti casi processi di scivolamento e crollo, una degenerazione le cui cause possono essere sia naturali (per la normale franosità dei versanti ) sia antropiche ( rioccupazione del luogo, specie in epoca medievale, con conseguente sbancamento degli strati di terreno in posto: per esempio i castelli medievali poggiano le fondamenta sempre sulla roccia ).
In questi casi i resti di un evento antropico, sia se costituito da un abitato sia d’altro tipo, non sono da ricercare in posizione sommitale, bensì possono ritrovarsi dispersi lungo versante o depositati alla base dello stesso, inducendo in tal modo a parlare di “linea di caduta dei materiali”: con questa espressione si intende in astratto il risultato dei processi di scivolamento, crollo o altro, di origine naturale o antropica che siano; in concreto considereremo la linea di caduta quella porzione di terreno che lungo versante o alla sua base
contiene attualmente i resti di un sito archeologico un tempo in giacitura primaria alla sommità di un colle.
Nelle valli indagate assai spesso si ha l’impressione che il terreno archeologico lungo versante vi sia stato deliberatamente gettato nel corso delle rifrequentazioni medievali. Nel comprendere quale significato territoriale ha avuto un sito di nuova individuazione non si è osservato unicamente il dato della quantità dei materiali rinvenuti, che di per sé non è indicativo per le suesposte difficoltà di reperimento dei materiali. Al contrario si è ritenuto che un’altura che abbia restituito reperti, per quanto poco abbondanti, possa rendere ipotizzabile una interpretazione del sito quale traccia di antico insediamento abitativo, essendo tale
ipotesi confermata in tutti quei luoghi che si sono potuti meglio indagare. Diversamente per i periodi più antichi ( Paleolitico, Mesolitico, periodi posteriori ) in alta montagna si verifica sovente di rinvenire su di un’unica superficie, erosa e dilavata, reperti di tutte le epoche durante le quali il luogo è stato frequentato. Si tratta solitamente di spazi pianeggianti posti lungo crinali o percorsi di mezza costa, nei quali la forte piovosità ha
provocato, nel tempo, l’asportazione della componente terrosa del suolo, spesso in modo completo. Il risultato è una superficie di pietrame più o meno minuto quando non lo stesso substrato roccioso, sul quale giacciono i reperti di tutte le epoche di frequentazione. Si parla in questi casi di “superfici dilavate”, e la ricerca procederà con l’indagine del maggior numero di esse.

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